Dall’incontro con Benitez alla insensibilità di Sarri, Koulibaly si racconta: “A Napoli sono davvero tranquillo, e la cosa bella è che li è nato mio figlio”

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Il difensore del Napoli Kalidou Koulibaly in un’intervista rilasciata al portale ‘theplayerstribune’, ha parlato del razzismo e di un aneddoto che riguarda l’ex allenatore del Napoli Maurizio Sarri. 

“Credo che i bambini capiscano il mondo meglio degli adulti. A volte la gente mi chiede: “Kouli, che cosa provi quando la gente ti fa ‘buu buu’? Non ti dà fastidio? Che cosa bisogna fare?”.

È una cosa talmente brutta ed è difficile parlarne. Ma voglio far passare un messaggio molto importante a tutti i bambini che leggono questo.  

La prima volta che ho veramente vissuto il razzismo nel calcio è stato contro la Lazio qualche anno fa. Ogni volta che prendevo palla sentivo i tifosi che facevano dei versi da scimmia. Mi dicevo che forse me lo stavo solo immaginando. Quando è uscita la palla ho chiesto ai miei compagni: “ma lo fanno solo a me?”. Alcuni tifosi della Lazio facevano ‘buu buu’ ogni volta che toccavo la palla. È impossibile sapere cosa sia meglio fare in quel momento. Ci sono stati dei momenti in cui sarei voluto uscire dal campo per mandare un messaggio, ma poi mi sono detto che era proprio quello che si aspettavano che facessi. Ricordo che mi dicevo “Perché lo fanno? Perché sono nero? Non è normale essere nero in questo mondo?”. Ti senti ferito. Ti senti insultato. Arrivi addirittura a un punto dove quasi ti vergogni. 

Dopo il fischio finale camminavo verso il tunnel ed ero arrabbiatissimo, ma poi mi sono ricordato di qualcosa di importante. Prima della partita c’era una giovane mascotte con cui sono entrato in campo mano nella mano, mi aveva chiesto la maglia e gli avevo promesso di dargliela dopo la gara. Quindi mi sono girato e sono andato a cercarlo. L’ho trovato sugli spalti e gli ho dato la mia maglia. E indovinate la prima cosa che mi ha detto? “Chiedo scusa per quello che è successo.” Mi ha colpito molto. Questo bambino chiedeva scusa per non so quanti adulti, e la prima cosa a cui pensava era come mi sentivo io. Gli ho detto: “Non fa niente. Ti ringrazio. Ciao”. 

So che succedono questi episodi e non solo per il colore della pelle. Sento quello che dicono i tifosi ai miei compagni di squadra, chiamano i serbi “zingari” e chiamano pure un italiano come Lorenzo Insigne “napoletano di merda”. 

In Inghilterra. Quando viene identificata la persona responsabile, viene radiata a vita dallo stadio. Spero che un giorno sarà così anche in Italia.

Dico sempre ai miei migliori amici: “Se mi vedete come un calciatore e non come il piccolo Kouli, e non come il vostro amico, vuol dire che ho fallito nella vita”. 

Mia madre racconta spesso della prima volta che siamo tornati in Senegal. Era la prima volta che vedevo i miei nonni e i miei cugini ed era uno shock vedere come viveva la gente in altre parti del mondo. Tutti i bambini correvano scalzi e ci ero rimasto male. Mia madre dice che le supplicavo di andare al negozio e comprare delle scarpe per tutti, così potevo giocare a calcio con loro. Ma mia madre mi disse: “Kalidou, togliti le scarpe. Vai a giocare come loro”.  

Alla fine mi sono tolto le scarpe di corsa e sono andato a giocare a piedi nudi con i miei cugini, ed è qui che inizia la mia storia con il calcio. Quando siamo tornati in Francia giocavo tutti i giorni in un piccolo parco vicino a casa. Il campo era metà erba e metà cemento e spesso dovevamo fermare il gioco per lasciare passare le macchine. C’erano tantissimi immigrati nel quartiere quindi giocavamo Senegal contro Marocco, Turchia-Francia, Turchia-Senegal”. 

Kalidou ha poi parlato della solidarietà tra gli abitanti del suo quartiere in Francia, che rendeva tutti fratelli senza distinzione di etnia, del colore della pelle e della religione: Sì, abbiamo le nostre differenze ma siamo tutti uguali”. 

Puoi avere tutto nella vita: puoi avere soldi, belle macchine, ma ci sono tre cose che non si possono comprare: l’amicizia, la famiglia e la serenità. Queste sono le cose più importanti della vita. Non si comprano da nessuna parte. È questa la lezione più importante che possiamo insegnare ai nostri figli. I miei genitori me lo hanno insegnato. Del calcio non gli importava davvero nulla.

I miei genitori non venivano mai a vedermi giocare ma a volte guardavano le grandi partite con me quando le davano alla TV. Nella mia testa mi dicevo che se non fossero venuti allo stadio allora avrei dovuto portarceli io. Avrei dovuto giocare partite che davano in TV, in questo modo mi avrebbero guardato.

Non dimenticherò mai della mia prima convocazione in prima squadra a Metz. Sono entrato verso la fine e sapevo che trasmettevano la partita in TV. Subito dopo la partita chiamai mia madre e le chiesi: “Mamma, hai visto? Sei contenta?”.  Mi disse: “Contenta? Giochi sempre a calcio. È normale. È quello che ti piace, no? Solo che ora giochi in TV. È bello”. 

Sono colpevole anch’io di aver avuto pregiudizi su certi luoghi e certe persone. Prima di venire a Napoli ero in ansia perché non sapevo parlare la lingua e la gente parlava male della mafia e così via. Non ci ero mai stato, quindi non sapevo se raccontassero la verità”. 

Poi racconta della telefonata di Benitez pensando che fosse lo scherzo di un amico.

“Giocavo al Genk in Belgio quando ricevetti una chiamata da un numero sconosciuto. Risposi in inglese: “Pronto, chi parla?” Buon giorno, sono Rafa Benitez.”. Gli dissi: “Dai Ahmed (il nome dell’amico n.d.r.), smettila di prendermi in giro” e attaccai. Mi chiamò di nuovo e iniziai ad arrabbiarmi “Dai Ahmed, basta”. “Pronto? Sono Rafa Benitez” ed attaccai di nuovo il telefono. Poi mi chiamò il mio procuratore e risposi: “Ciao Kouli, come stai? Hai già parlato con Rafa Benitez del Napoli? Ti chiamerà.”  Gli risposi: “Cosa? Ma stai scherzando? Credo che mi abbia appena chiamato. Pensavo che fosse il mio amico a farmi uno scherzo!”.

Grazie al procuratore Koulibaly e Benitez si sono poi parlati, in francese, e Koulibaly rimase talmente impressionato dal tecnico spagnolo che disse al procuratore: “Fai tutto quello che devi fare. Andiamo a Napoli”. 

Mancavano solo 48 ore alla fine del mercato di gennaio e il Napoli non riuscì a raggiungere un accordo con il Genk. Ma Rafa mantenne la parola e mi prese quell’estate. Quando arrivai per le visite mediche ero ansioso perché non parlavo ancora l’italiano. Il presidente De Laurentiis mi salutò nel corridoio: “Quindi sei tu Koulibaly? Ma non sei alto? Ma non eri alto 1,92?” “No, presidente, sono alto 1,86”. “Mannaggia! C’è scritto dappertutto che sei 1,92! Devo parlare con il Genk per avere dei soldi indietro!” “Nessun problema, presidente. Paghi pure il prezzo pieno, gli darò ogni centimetro in campo, non si preoccupi”. 

Gli piacque molto questa frase. Si mise a ridere e mi disse: “Va bene, sei il benvenuto qui a Napoli, Koulibaly. Benvenuto”. 

Koulibaly ha poi raccontato come dopo le visite mediche Benitez a pranzo abbia preso tutti i bicchieri da tavola per spiegargli il suo sistema di gioco. Così come quando al ritorno dalle vacanze Benitez dopo avergli fatto vedere i filmati con le sue giocate più belle: lanci bellissimi, dribbling e interventi in scivolata.

Dopidichè Benitez gli dice: “Non fare più queste cazzate.”  “Ma ho preso la palla!” “Questo è culo! Hai recuperato la palla grazie alla tua forza fisica. Se il tuo avversario fosse stato più intelligente, saresti stato in difficoltà.”

Dopo Benitez gli ha fatto vedere un video con giocate normali:Così. Così va bene. Va benissimo così.” “Mister, ma sono giocate semplici.” “Appunto Kouli”.  

Ero un ragazzo quando sono arrivato in Italia. Sono diventato un calciatore migliore perché ho imparato la tattica ad alti livelli. Ma la cosa più importante è che sono diventato un vero uomo di famiglia e un vero napoletano. Anche quando torno a casa in Francia ormai, i miei amici non mi chiamano più “il senegalese” o “il francese”, ma dicono: “Ecco il napoletano”. 

Napoli è una città che ama la gente. Mi ricorda l’Africa perché c’è tanto affetto. La gente vuole toccarti, vuole parlarti. La gente non ti tollera, ti ama. I miei vicini mi vedono come un figlio. Da quando sono arrivato a Napoli sono un uomo diverso. Sono davvero tranquillo. 

La cosa più bella è che mio figlio è nato qui. Non mi scorderò mai di quel giorno perché è una storia pazzesca che riassume perfettamente Napoli.

Mia moglie era andata in ospedale la mattina e quella sera avremmo giocato contro il Sassuolo in casa. Eravamo in sala video ed il mio telefono continuava a vibrare. Di solito lo spengo ma ero preoccupato per mia moglie. 

Mi aveva chiamato cinque o sei volte. 

Il nostro allenatore all’epoca era Maurizio Sarri. È un tipo molto intenso, quindi non volevo rispondere. Alla fine uscii di corsa, risposi al telefono e mia moglie mi disse: “Devi venire subito, nostro figlio sta arrivando”. 

Allora andai da Sarri e gli dissi: “Mister, mi scusi ma devo andare. Sta nascendo mio figlio!”.

Sarri mi guardò e mi rispose: “No, no, no. Ho bisogno di te stasera, Kouli. Mi servi davvero. Non puoi andare”. 

Gli dissi: “Sta per nascere mio figlio, mister. Faccia quello che vuole. Mi dia una multa, una squalifica, non mi importa. Io vado”.  “Va bene puoi andare in ospedale ma poi devi tornare per la partita stasera. Ho bisogno di te, Kouli!”. 

Andai di corsa in ospedale. Se non sei diventato padre per la prima volta, non puoi capire questa sensazione. Non puoi perderti la nascita di tuo figlio. Arrivai a mezzogiorno e, grazie a Dio, alle 13:30 era nato un piccolo napoletano. L’abbiamo chiamato Seni. È stato il giorno più bello della mia vita. 

Alle 16 mi chiamò il mister: “Kouli? Ma torni? Ho bisogno di te. Ho veramente bisogno di te. Ti prego!”

Mia moglie stava ancora recuperando le forze e probabilmente anche lei aveva bisogno di me. Ma non volevo deludere i miei compagni di squadra perché gli voglio davvero bene. E amo la città di Napoli. Mia moglie mi disse di andarci e io andai allo stadio. Stavo iniziando a prepararmi per giocare e Sarri entrò negli spogliatoi e attaccò l’undici di partenza al muro. Io cercavo, cercavo… Non c’era il mio numero. Gli chiesi: “Mister, ma sta scherzando?”  “Cosa? È una mia scelta.” Mi aveva messo in panchina! Gli dissi: “Mister, mio figlio, mia moglie. Li ho lasciati lì. Mi ha detto che aveva bisogno di me.” “Sì, abbiamo bisogno di te in panchina.”

Ora che ci penso, mi viene da ridere, ma in quel momento mi veniva da piangere. 

Sono un calciatore nero. Ma non sono solo questo. Sono musulmano. Sono senegalese. Sono francese. Sono napoletano. E sono un padre. Ma ci sono tre cose che non si possono comprare da nessuna parte: l’amicizia, la famiglia e la serenità. Lo abbiamo capito da bambini a Saint-Dié e voglio che anche mio figlio lo capisca. Spero che un giorno lo capiranno anche quelli che mi fanno ‘buu’. Sì, forse siamo diversi. Ma siamo tutti fratelli”.